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La Croce contro il Leviatano. Ovvero: perché il concetto di Stato è anticristiano78 minuti di lettura

Caravaggio, “Madonna dei Palafrenieri” (particolare), olio su tela, 292×211 cm, 1606. Roma, Galleria Borghese [immagine in evidenza]

Caravaggio, Madonna dei Palafrenieri (particolare), olio su tela, 292×211 cm, 1606. Roma, Galleria Borghese

Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re. Disse: «Questo sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, li farà capi di migliaia e capi di cinquantine, li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi. Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà». Il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele e disse: «No! Ci sia un re su di noi. Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice…».

1Sam 8,10-20

Hanno creato dei re che io non ho designati; hanno scelto capi a mia insaputa.

Os 8,4

Noi siamo talmente depravati da una lunga schiavitù – osserva Tolstoj – che non riusciamo più a immaginarci unamministrazione che non si appoggi sulla forza. […]

In pratica, ecco quello che avviene: un uomo vive tranquillamente, occupato nelle sue faccende o nei suoi piaceri, consumando il frutto del proprio lavoro. Ad un tratto, alcuni individui penetrano in casa sua e gli dicono: prometti e giura che ci obbedirai servilmente in tutto ciò che ti ordineremo e che considererai come verità indiscutibili tutto ciò che immagineremo e decideremo e che chiameremo leggi; dacci quindi una parte del prodotto del tuo lavoro affinché, con questo denaro, noi ti manteniamo in schiavitù e ti impediamo di resistere ai nostri ordini con la violenza. Cosa mai potrebbe rispondere – si chiede Tolstoj – un uomo assennato? Perché dovrei promettere di obbedire a degli uomini che mi sono sconosciuti? Perché, sotto forma di imposta, dovrei lasciare a loro il prodotto delle mie fatiche, sapendo che questo denaro serve a comperare funzionari, a fabbricare prigioni, a mantenere l’esercito e altre cattive cose destinate ad opprimermi?

Il semplice ragionamento e il calcolo dovrebbero condurre tutti gli uomini a rigettare come folli le pretese di questi uomini che dicono di essere lo Stato o il governo: «Come gli uomini, esseri ragionanti, possono vivere in comunità raggruppate dalla violenza, al posto di esservi per consenso motivati?». La logica di Tolstoj è implacabile: se gli uomini sono delle creature dotate di ragione, i loro rapporti devono essere ispirati dalla ragione e non imposti dalla violenza di coloro che, tra di loro, si sono per avventura impossessati del potere.

Guglielmo Piombini, La Croce contro il Leviatano, pp. 158, 159

Premessa

Il Leviatano è il grande mostro biblico che dà il nome a un trattato del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) in cui viene esposta la teoria dello Stato assoluto, uno Stato «che domina i comportamenti umani e tutto decide per loro»1Cosimo Perrotta, Dizionario di Economia e Finanza (2012), Treccani.. Già nell’Antico Testamento, in realtà, questa creatura mitica – un animale acquatico descritto come un serpente tortuoso o un coccodrillo – stava a simboleggiare la potenza dei faraoni d’Egitto e degli altri nemici di Dio, i “faraoni” in senso figurato, tutti i rappresentanti dello Stato oppressore che avanzava pretese di egemonia sul popolo di Israele2Il popolo dei figli di Dio, liberi per definizione (“figli”, in latino, si dice appunto liberi)..

A partire dall’uscita dell’opera magna di Hobbes (1651), il Leviatano divenne ancora di più l’emblema del dominio dello Stato sugli individui e anche – se vogliamo – l’emblema della contrapposizione inesorabile tra Stato e Chiesa, tra Stato e Dio, tra il “dio mortale” e il “Dio immortale”, per dirla alla maniera di Hobbes. La massima evangelica «nessuno può servire due padroni»3Cfr. Mt 6,24. era stata ben compresa dal filosofo britannico, che considerava la Chiesa come una minaccia al potere del sovrano: nello Stato hobbesiano, infatti, tutto il potere discende dal sovrano, mentre è evidente che il potere della Chiesa, il potere dei figli “liberi” di Dio sia completamente “fuori controllo”: è “fuori controllo” perché deriva da Dio, non da un uomo, ed è “fuori controllo” perché del suo utilizzo occorre rispondere unicamente a Dio, non ad autorità o tribunali umani.

Capiamo dunque che Stato e Chiesa, Stato e Dio, sono due istituzioni incompatibili tra loro, perché se un’Istituzione (quella divina) accorda agli individui la libertà, l’altra mira a limitarla in nome di un presunto bene non più individuale, ma questa volta collettivo (vedremo in seguito che il bene collettivo è un’illusione, in pratica non esiste).

Guglielmo Piombini, “La Croce contro il Leviatano”, Tramedoro, Bologna 2021
Guglielmo Piombini, La Croce contro il Leviatano, Tramedoro, Bologna 2021

Abbracciando l’idea della contrapposizione tra queste due entità, Guglielmo Piombini, libraio, editore e studioso del pensiero liberale classico e libertario, ha voluto intitolare la sua ultima opera La Croce contro il Leviatano, quasi a voler “esorcizzare” il demone «contorto, malvagio e avvolto»4È questa l’etimologia della parola “Leviatano”. dello Stato anteponendogli un altro simbolo: la Croce, per l’appunto. La tesi centrale di questo libro è che tra «le norme morali del cristianesimo» e «i diritti naturali inviolabili della tradizione liberale» vi sia completa corrispondenza: «… il nucleo del messaggio morale evangelico corrisponde esattamente al principio di non aggressione della dottrina libertaria, secondo cui non è mai legittimo dare inizio a un’aggressione contro individui pacifici. Partendo da questo assunto, ne consegue che il Cristianesimo non è compatibile con lorganizzazione politica statuale, perché questa si fonda sulla coercizione e sullaggressione sistematica alla vita, alla libertà e alla proprietà degli individui»5Citazione ripresa dalla quarta di copertina..

Di fatto, secondo Hobbes, lo Stato politico nasce nel momento in cui gli individui accettano di trasmutare i loro diritti naturali, diritti personalissimi e, per l’appunto, individuali, in diritti positivi, che da quel momento in poi troveranno la loro legittimazione nel fatto di essere riconosciuti e accettati dal governo. Si tratta tuttavia di una sofisticazione, perché tali diritti sono costitutivi della natura stessa dell’uomo e non possono essere (s)venduti a qualsiasi altro uomo (si dicono appunto inalienabili).

Hobbes lo chiamava proprio “contratto sociale”: in cambio di una supposta “pace e sicurezza”, gli individui accetterebbero di farsi governare da… altri individui che dovrebbero impegnarsi a garantire l’assenza dei conflitti propri dello stato di natura in cui tutti competono con tutti (bellum omnium contra omnes). È vero, l’uomo è un lupo per ogni altro uomo, ma è proprio per questo che non dovrebbe mai accettare di cedere la propria libertà a quello che in fin dei conti è un proprio simile: se tutti gli uomini sono lupi e il governante di turno è un uomo, non ha senso cedere a lui il diritto di governare non soltanto se stessi, ma una moltitudine di individui ciascuno con la propria sensibilità individuale (tra parentesi: può essere realistica la pretesa di riunirle tutte sotto la stessa bandiera?).

La cessione della propria libertà a un altro individuo avrebbe senso solo se questo individuo la meritasse, banalmente, ossia se questo individuo fosse in grado di aiutarci in ogni circostanza ad agire per il meglio, a fare scelte migliori per noi di quelle che noi faremmo per noi stessi. Insomma: avrebbe senso solo se al posto dello Stato ci fosse Dio (chi è che sa esattamente cosa è meglio per noi? Chi è che è infallibile?). Ora, è chiaro che Dio non vuole sostituirsi alle nostre scelte (è stato Lui ad averci creati liberi, liberi persino di allontanarci da Lui!); perciò possiamo dire che lo Stato ha la pretesa di fare quello che Dio stesso non fa, la pretesa di governarci non già in nome del bene oggettivo – solo il Re dei re è in grado di operare sempre oggettivamente bene –, bensì il nome del bene “soggettivo”, del bene che appare “bene” agli occhi dei governanti, ma è tutto da vedere che lo sia davvero!

In realtà, il modello statuale non funziona per diversi motivi: il primo è che, stipulando questo contratto, si andrebbe a creare una spaccatura conclamata nella società tra chi ha più potere e chi ne ha di meno, condizione di per se stessa già conflittuale. Per non parlare di quanto lo sia sul piano dei fatti: secondo Piombini, che a sua volta si rifà al filosofo statunitense Michael Huemer, «l’uguaglianza di potere genera il rispetto». Vien da sé che, invece, l’esistenza dello Stato crei un grande squilibrio a favore di alcuni individui, eccitando in loro desideri predatori. E le vittime, cioè i cittadini, sono comprensibilmente6Reazioni di questo tipo, ovviamente, sono sempre “comprensibili”, ma non sempre “giustificabili”. portate a reagire in ritorsione, talvolta con violenza, nel tentativo di difendersi. Questa disuguaglianza, insomma, genera frustrazione e la frustrazione genera aggressività.

Ecco dunque il punto fondamentale: la guerra nasce con lo Stato. La guerra, più nello specifico, nasce dalla divisione e dalla disparità di poteri. Siccome lo Stato implica queste due cose – la divisione, per dire, è data semplicemente dal legame tra il concetto di Stato e il concetto di confini –, allora lo Stato è divisivo e causa almeno potenziale di guerra.

Lo Stato è causa di divisione sia “fuori” che “entro” i confini

A proposito del legame di cui sopra, è necessario specificare che esistono confini “artificiali” e confini “naturali”: i confini statali rientrano nella prima categoria, essendo stati tracciati arbitrariamente, in maniera forzata, dopo la conquista armata di un dato territorio (infatti, se la guerra nasce con lo Stato, vale anche il contrario: lo Stato nasce e si alimenta [“espande”] con la guerra. È un circolo vizioso!).

Vi sono poi i confini naturali, legittimati dalla natura stessa dell’uomo, e sono quelli che attengono appunto alla sua individualità: si pensi all’appartenenza a un nucleo familiare, ma anche alla delimitazione della proprietà privata, entrambe cose che certi regimi hanno deliberatamente calpestato oppure chiesto di sacrificare in nome dell’“amor patrio” (un esempio può essere ciò che è accaduto durante le due guerre mondiali, con giovani strappati alle loro famiglie e mandati a morire al fronte e con tutte quelle manifestazioni tipo “Oro alla Patria” indette per sostenere i costi della guerra).

Uno dei motivi per cui l’organizzazione statuale è stata promossa dai più nel corso dei secoli è che la si è vista come una via conveniente per compattare una comunità e renderla più forte contro l’aggressione straniera. Il punto è: quale comunità? Una comunità basata su quale comunanza?

La risposta a questa domanda potrebbe essere: «La cosa in comune è il fatto di vivere tutti in un territorio comune»; come abbiamo visto, però, è sempre l’uomo a tracciare arbitrariamente i confini “politici” tra un territorio e un altro! Dunque, senza confini politici, lo straniero semplicemente non esiste, e quindi il timore di aggressioni “esterne” è del tutto ingiustificato.

Prendendo in prestito due espressioni proprie della teologia trinitaria, potremmo dire che lo Stato divide sia “ad intra” che “ad extra”. Ad intra perché il divide et impera è ormai una tecnica collaudata di governo, e lo Stato contrappone al suo interno «coloro che traggono beneficio dalla sua esistenza» (i “potenti”, vale a dire i governanti) e coloro che, al contrario, ne sopportano gli atti di sopraffazione… oltre che i costi. Sì, perché lo Stato è l’unica organizzazione della società che ottiene le sue entrate attraverso la coercizione7P. 13., piaccia o non piaccia, si approvi o non si approvi il suo operato.

Qualora qualcuna delle “vittime” non lo approvi, poco importa: intanto, nella maggior parte dei casi, i sudditi sono completamente asserviti, viste anche le ampie operazioni di propaganda fatte dai cc.dd. “media di regime”; e seppure qualcuno osasse insorgere, sarebbe comunque in minoranza, quindi costretto o a desistere o ad accettare il rischio di subire ritorsioni.

Ma lo Stato, dicevamo, divide anche ad extra nel senso che abbiamo visto prima. La “scomposizione” del mondo in Stati, anche se dettata da motivi pratici e di organizzazione, ha sempre come implicazione/effetto collaterale una certa rivalità o quantomeno “tensione” tra gli Stati stessi (è una cosa insita nel concetto di divisione; divisione che – ricordiamo – è forzata e innaturale, dunque si è comprensibilmente portati a rigettarla). Riportiamo la sintesi di Piombini: «Qualsiasi governo, […] per aver il consenso di una parte maggioritaria della popolazione, deve mantenere il Paese in uno stato di perenne emergenza, additando un nemico esterno, suscitando così gli odi tra le diverse nazioni; o di un nemico interno, mettendo alcune categorie sociali contro altre».

Il (vero) significato del termine “nazione”

A questo punto si potrebbe aprire una parentesi sulla “legittimità” (dal punto di vista della legge divina, ovvio) non soltanto dello Stato come entità giuridica e istituzionale, ma addirittura della “nazione”, ossia della comunità di cittadini divisa da un’altra sulla base delle proprie peculiarità culturali e sociali. Non vogliamo proporre questa tesi come verità assoluta: si tratta di una tesi, per l’appunto, e come tale rimane ampiamente discutibile e criticabile, se il lettore lo ritiene.

Ne avevamo già parlato nel post Evoluzione o involuzione?, a proposito del riadattamento alle circostanze di clima e vita resosi necessario dopo lo scombussolamento dovuto al peccato. È possibile (per non dire “certo”) che il mondo sia diverso rispetto a quello pensato originariamente da Dio anche per come appare organizzato oggi. Se non altro, la divisione è una cosa che Dio maltollera, e maltollera ancor di più quando dalla divisione segue la disparità (di potere, tra sudditi e governanti) e, dalla disparità, l’ingiustizia. Lo dicevamo allora e lo ripetiamo ora: «Questo meccanismo di divisione e conseguente diversificazione dei popoli viene descritto anche nella Bibbia: nell’episodio della torre di Babele8Cfr. Gen 11,1-26., la diversità (da cui derivano le disparità, oltre che le incomprensioni) è il frutto negativo della divisione causata dagli uomini e dalla loro arroganza. Ciò non toglie che il confronto con il diverso, allo stato attuale delle cose, rappresenti quasi sempre un’occasione di arricchimento; originariamente, però, l’uomo sarebbe stato integro, indiviso anche in se stesso, e avrebbe racchiuso già in sé tutto il bello che esiste nel mondo».

«Né giudei né greci» (ma semiti, camiti o jafetiti)

D’altra parte, l’unità e l’integrità dell’uomo sono state ristabilite nell’“Uno” Cristo Gesù, dinanzi a cui non esiste più né giudeo né greco, come leggiamo nella Sacra Scrittura9Cfr. Gal 3,28..

Le differenze di nazionalità, agli occhi di Dio, non contano nulla. Distinguere un individuo a seconda della sua appartenenza a un gruppo sociale non ha semplicemente senso, perché non siamo diversi in virtù della nostra appartenenza a una nazione piuttosto che a un’altra; Dio ama distinguerci in base alla nostra bellezza di individui, alla nostra unicità, proprio quella che il socialismo mira ad appiattire. In sintesi, non ha senso parlare di differenze collettive, perché le uniche differenze esistenti – per di più per Volere divino – sono differenze individuali (stabilite da Dio nel momento stesso in cui ha creato/crea le varie anime; tutte le altre classificazioni sono al massimo di tipo convenzionale, non ci qualificano in nessun modo).

Nella nostra conversazione, il dott. Gaetano Masciullo, filosofo e traduttore del saggio che introduce il libro di Piombini10J. Redford, Gesù era un anarchico., ha messo in evidenza un ulteriore aspetto legato al concetto di “nazione”, che in origine atteneva «all’ascendenza e all’appartenenza a una famiglia, a una casa, a una tribù».

Il riferimento è all’etimologia della parola “nazione” e dunque al suo significato naturale (citiamo dal vocabolario Treccani: “nazione” deriva «dal lat. natio -onis, der. di nasci “nascere”»): «I cognomi nascono così, per indicare questo tipo di nazionalità, l’unica sensata. Gli ebrei rimasero ebrei anche in Egitto, dopo secoli dal loro insediamento, perché erano discendenti di Eber, da qui il nome», prosegue Masciullo. «Nella modernità – invece –, il cognome si è ridotto a concetto burocratico e anagrafico: chi infatti di noi conosce le proprie origini “tribali”?».

Mappa orbis terræ
Mappa orbis terræ ripresa dalle Etimologie di sant’Isidoro di Siviglia; l’editio princeps è datata 1472.

In effetti, gli unici in grado di risalire alle proprie origini tribali11Il riferimento, ovviamente, è alle dodici tribù d’Israele. sono proprio gli ebrei ortodossi (anche se non con esattezza). Il dott. Masciullo cita molto opportunamente la Tavola delle Nazioni contenuta in Genesi 10, un documento importantissimo che ci aiuta a ricostruire la vera origine di tutti i popoli del mondo. Inseriamo qui accanto una mappa orbis terræ che rappresenta i continenti come domìni dei figli di Noè (Sem per l’Asia, Cam per l’Africa, Jafet per l’Europa); ad ogni modo, ci proponiamo di spiegare meglio questo punto in un prossimo articolo.

Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro genealogie, nelle rispettive nazioni. Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra dopo il diluvio.

Gen 10,32

Il bene imposto è di per sé un male

Chiusa questa parentesi sulle nazioni, torniamo a parlare più propriamente degli Stati e nello specifico della loro organizzazione/del loro funzionamento. Si potrebbe pensare che il governo sia necessario per ragioni di ordine, di convenienza e di convenzione: «È più comodo così», insomma, e in fin dei conti non è nemmeno tanto male, se si considera che nella maggior parte dei Paesi vige un regime più o meno democratico. Ma il “governo del popolo”, il “governo di tutti”, è di fatto governo di nessuno, perché è impossibile mettere tutti d’accordo senza fare violenza a qualcuno e il “bene collettivo” semplicemente non esiste. Nell’ottica di Dio esiste il bene individuale, che soltanto accidentalmente si ripercuote sul bene e sul benessere della collettività. In altre parole, la somma dei beni individuali fa il bene e il benessere collettivo.

Ciò non significa che non esista un bene oggettivo. Ma il bene oggettivo non sarà mai pieno, fintantoché sarà un altro a imporlo. Per definizione, l’imposizione è una violenza, dunque quel “bene oggettivo”, buono quanto ai contenuti, si tramuta in un “male soggettivo” quanto alle sue implicazioni formali (la coercizione genera frustrazione, odio e ha come conseguenza possibile la ribellione. In sintesi: genera male). Tutto quello che si può fare per condurre una persona al bene è appunto “condurla”, accompagnarla, trattandola da essere pensante e ragionevole (perché tale Dio l’ha creata).

Ancora, nel nostro dialogo, il dott. Masciullo ha posto l’accento sull’illegittimità… della legge (almeno di quella umana) citando un classico: «Nessuna azione retta, se forzata, è giusta», scriveva Cicerone nel suo De officiis.

Un altro pensatore del calibro di san Tommaso d’Aquino faceva presente più o meno la stessa cosa, quando nella Summa Theologiæ parlava del primato della coscienza anche erronea: «Ogni singola coscienza – sintetizza Masciullo – rappresenta per l’individuo una fonte di autorità morale. Questo si verifica a prescindere se la coscienza è rettamente formata oppure no. Ora il socialismo, a prescindere dalla sua forma, applica violenza. Così facendo, non rispetta la dignità dell’uomo e anzi finisce per indurire il suo cuore. Bisogna rispettare la coscienza altrui ed educarla a fare altrimenti, laddove sbaglia (infatti, tra le opere di misericordia spirituale non troviamo “costringi gli erranti a fare il bene”, bensì troviamo: “ammonisci i peccatori”, “insegna agli ignoranti”, “consiglia i dubbiosi”… ben tre azioni che hanno a che fare con la coscienza altrui, nel rispetto della stessa coscienza!)».

Gesù non era socialista e i cristiani non sono comunisti

A proposito di socialismo, nel libro si smonta anche la teoria che vorrebbe Gesù come propugnatore illustrissimo di questo genere di politica: «Gesù predicava l’amore, il rafforzamento del carattere, il miglioramento interiore, mentre i socialisti predicano la concentrazione del potere», sottolinea Piombini a pagina 176.

Bandiere e stelle anarchiche
Questa infografica con le bandiere dei principali movimenti anarchici chiarifica che non esiste una sola idea di anarchismo. Si può dire che tutti i movimenti anarchici, a eccezione dell’anarco-capitalismo, siano assolutamente incompatibili con il cristianesimo (abbracciare una sola di queste ideologie vuol dire da un punto di vista oggettivo commettere un peccato mortale!). Più spesso, quando si parla di anarchia, si pensa all’anarchia di stampo comunista, simboleggiata dalla prima di queste bandiere, ma è evidente che in questo tipo di anarchia non ci sia nulla di cristiano. Specificarlo dovrebbe essere superfluo, ma constatiamo con immenso dolore che diversi sedicenti cattolici – ecclesiastici inclusi – hanno fatto proprie le idee dell’anarchia di matrice comunista o anche semplicemente del comunismo più o meno “puro”/edulcorato: queste persone potrebbero essere in buona fede e non rendersi conto del loro grave errore, ma l’errore, di per sé, è e rimane grave. Basti pensare che nel 1949 papa Pio XII approvò un decreto di scomunica nei confronti degli “apostati” che professavano la dottrina comunista, la appoggiavano o favorivano in qualsiasi modo (non soltanto con il voto!); se non fosse sufficiente, poi, si pensi all’estrema severità con cui padre Pio li trattava in confessionale, negando loro l’assoluzione ed esortandoli a “convertirsi”.

I socialisti, per definizione, predicano anche l’appiattimento delle disuguaglianze non soltanto sul piano economico, ma anche su quello sociale. Il che – al pari del collettivismo – contrasta con la natura umana. Si legge a questo riguardo in un saggio di Charles Gave12Gesù economista, pp. 102, 105.: «Il collettivista denigra l’individuo. Ci dice che esiste un bene morale superiore riguardante il gruppo, specialmente quando è lui a definirlo o a guidarlo. Le entità collettive, in realtà, finiscono sempre per ridursi ad alcuni individui che dicono agli altri cosa devono o non devono fare». Uno degli errori fondamentali del socialismo è proprio questo: il socialismo non prevede una liberalità spontanea e quindi meritoria, ma solo prelievi di risorse coatti e a lungo andare odiosi. Sappiamo dagli Atti degli Apostoli13Cfr. At 2,44-47; 4,32-37. che i primi cristiani mettevano in comune i loro beni, ma lo facevano liberamente, potendo in questo modo acquistare dei meriti dalle loro azioni.

Il socialismo e il comunismo annullano la possibilità di fare del bene… fatto “bene”, non per forza ma per amore. Inoltre, queste politiche sono insostenibili nel lungo periodo, perché si concentrano più sulla “redistribuzione” che sulla “produzione” efficace della ricchezza (in un Paese capitalista, invece, l’obiettivo fondamentale è proprio questo).

Prosegue Gave: «Ciascuno di noi, infatti, è totalmente unico. Questa straordinaria intuizione di Cristo è stata confermata dalla scienza moderna, con la scoperta del Dna. Non possono quindi esistere soluzioni collettive ai problemi di questo mondo. Ciascuno di noi deve tentare di migliorarsi per tutta la sua vita, senza costringere gli altri a fare ciò che sembra a noi il bene».

“Costringere a fare il bene” è una cosa che Dio stesso non fa, in nome del libero arbitrio che fin da principio ha accordato alle sue creature. Con quale presunzione, dunque, potremmo autoinvestirci di questa autorità? Come potrebbe Dio volere la “dittatura del bene”, sapendo che per raggiungere questo ideale dovrebbe sacrificarne un altro – la libertà – e così questo bene finirebbe per essere un male?

Ministri (“servitori”) che non servono

Badate bene che Dio è infallibile, quindi le Sue disposizioni sarebbero sempre giuste e vantaggiose per tutti. La stessa cosa non si può dire di un uomo che desse ordini a un altro uomo (a suo rischio e pericolo). Perché il Primo non lo fa e il secondo sì? Chi è il secondo per scavalcare il Primo e oltraggiare in questo modo il suo simile? Anzi, secondo l’ideologia socialista, il suo… “uguale”? È un paradosso, molto evidentemente. Oltre che un’utopia: i governanti, in quest’ottica, non saranno mai sufficientemente omologati, dunque le ingiustizie e le disuguaglianze che si volevano eliminare permarranno in ogni caso.

È vero: sulla carta, i governanti – più propriamente i “parlamentari” – dovrebbero “rappresentare” il popolo. Tralasciando il fatto che non si può rappresentare un insieme di persone tutto intero, ma al massimo una maggioranza, facciamo notare che i cosiddetti “rappresentanti” non sono mai veramente tali, per il semplice fatto che si pongono in una condizione di superiorità, di supremazia. È nella logica del governo (o del parlamento): non si può governare (o legiferare) se non sedendo su uno scranno, “salendo” al colle o addirittura “scalando” Monte Citorio…

Nel gergo politico si usa un’altra parola controversa: ministro (da cui “amministrare”). Si badi bene che la parola “ministro” deriva dal latino minister, col significato di “servitore”. Ma, ancora una volta, non si può servire stando in alto: chi sta in alto è padrone, più che servitore, ed è come se mancasse continuamente alla carità, trattando gli altri come sudditi. Non sarebbe così se si tornasse al significato originario di “ministro”, ma che i ministri poi “servano” davvero è tutto da verificare (in tutti i sensi).

Nel saggio di Redford viene detto che i governi, per il solo fatto di esistere, violano in continuazione il comandamento sociale ultimo di Gesù: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro»14Cfr. Mt 7,12 (vd. anche Lc 6,31).. Per estensione: tutto quanto non volete che gli uomini facciano a voi, anche voi non fatelo a loro.

Rispettare questo principio, per i governi, è assolutamente impossibile, «perché tutti i governi fanno ai propri sudditi ciò che essi vietano ai propri sudditi di fare a loro». Tale ingiustizia si esplica almeno su due fronti: il primo è quello giudiziario, dal momento che «tutti i governi istituiscono tribunali ed eseguono le proprie decisioni, mentre vietano agli altri di impegnarsi nella stessa pratica». Il secondo è quello economico: il governo «è l’unica organizzazione della società che ottiene legalmente le sue entrate con la coercizione, anziché per mezzo di contributi o pagamenti volontari»15P. 13..

Nel libro viene fatto un esempio più o meno simile: se un gruppo di privati cittadini non fosse più soddisfatto dei servizi che il governo sta fornendo (l’insoddisfazione è legittima!) e decidesse di aprire un’attività per offrire i propri servizi di arbitrato e protezione sul mercato senza chiedere il permesso al governo, verrebbe subito attaccato e limitato. Stessa cosa avverrebbe se, sempre per insoddisfazione, uno o più cittadini decidessero di smettere di finanziare un governo che va contro i propri interessi attuando politiche soggettivamente (più spesso “oggettivamente”) discutibili. È un’ipotesi non remota, ma concreta e attualissima: si pensi al dilemma morale dei cattolici che non intendono finanziare l’aborto, il classico delitto legalizzato in molti ordinamenti giuridici, eppure, indirettamente, sono costretti a farlo pagando le tasse.

Questa è una vera e propria violenza morale: vuol dire non avere a cuore le sensibilità di tutti, ma anzi passarci sopra calpestandole in nome di un inesistente “bene comune”. Che poi, come abbiamo visto, è il (presunto) bene della maggioranza, una maggioranza spesso vittima a sua volta di vaste operazioni di indottrinamento e propaganda mediatica (anche i media, ricordiamo, sono in mano al governo: si pensi alla TV pubblica o TV “di Stato”, per l’appunto). L’intento sembrerebbe essere proprio quello di uniformare i pareri, appiattire la società: reprimendo il dissenso, è anche più facile governare. Ora, riconosciamo: è bene mantenere l’ordine. Ma a quale prezzo?

Per farci un’idea del “prezzo” da pagare, basta andare a pagina 41 del nostro saggio, dove leggiamo che – nell’ultimo secolo – le persone uccise dai propri governi per ragioni puramente ideologiche superano in numero quelle morte in guerra nello stesso arco di tempo (sono sei volte di più).

Il nazionalismo è alla base dei conflitti

Ma si potrebbe pensare che le stesse morti in guerra siano state causate dallo Stato, seppur in maniera indiretta. Più che le religioni, infatti, sono i nazionalismi16“Nazionalismi” derivanti da un frainteso concetto di “nazione” (ne abbiamo parlato più sopra). a dare origine a conflitti e violenze.

Qualcuno, a questo punto, potrebbe obiettare riferendosi al caso dell’islam e alle sue cosiddette “guerre sante”, portate avanti in nome di princìpi apparentemente religiosi. Secondo Piombini, però, l’islam non sarebbe una vera religione, quanto piuttosto un’ideologia politica totalitaria che fonde tra loro «Stato, legge (la sharia), religione17Quindi l’aspetto spirituale propriamente detto, che comunque – secondo questa visione – rimarrebbe secondario, marginale. e società»18P. 197.. “Totalitaria” perché gli islamici avrebbero come fine supremo la diffusione della propria causa (fatta ovviamente eccezione per l’ala più moderata, ma anche – dicono gli esperti –, meno fedele agli insegnamenti del Corano), ed è evidente che per raggiungere questo ideale si debba azzerare la tolleranza e sacrificare i sentimenti umani.

Consideriamo ora quegli Stati che hanno adottato il Corano come fonte del proprio ordinamento. Ciò rende ancora più chiaro il legame tra islam e politica, ma per il momento vogliamo sfruttare questa constatazione come pretesto per una riflessione più ampia.

Che dire delle autorità religiose?

La riflessione, nello specifico, riguarda le cosiddette autorità religiose: ormai è chiaro che il libertarismo non contempli in se stesso il concetto di autorità. Viene esclusa l’autorità dello Stato in primis, e a scendere tutte quelle che da essa trovano legittimazione (l’autorità governativa, di un funzionario [civile/militare], giudiziaria ecc.). Ma vale lo stesso per le autorità religiose?

La risposta, in realtà, è no. Le autorità religiose sono certamente da preservare, perché sono state costituite da Dio in persona. Pertanto, sono le uniche legittime a tutti gli effetti; “legittime”, s’intende, rispetto alla Legge di Dio.

Ricordiamo a questo proposito ciò che scrive san Paolo nella sua Lettera ai Romani (13,1): «Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio». «Dio stesso – specifica Redford19P. 29. – conferma direttamente questa cosa quando riferisce a Osea: “Hanno creato dei re che io non ho designati; / Hanno scelto capi a mia insaputa”20Cfr. Os 8,4.».

Prosegue Redford: «La fallacia che molte persone commettono quando incontrano un’affermazione come questa è quella di assumere acriticamente e automaticamente che Paolo doveva riferirsi alle persone che controllano i governi mortali che esistono sulla Terra – perché, dopotutto, non sono queste stesse persone che gestiscono i governi mondani a chiamare se stessi “autorità di governo”? Non sono essi stessi a insegnare ai propri sudditi sin dalla nascita che sono “sovrani” e “autorità”?». Ma la loro, in fin dei conti, non è che un’autorità usurpata, abusiva.

Per quanto legittime, comunque, le autorità religiose non hanno nessun diritto di spadroneggiare sul popolo loro affidato21Cfr. 1Pt 5,3., e comunque la coscienza le supera in autorevolezza:

Se il Papa o la Regina esigessero da me una “obbedienza assoluta”, lui o lei trasgredirebbero le leggi della società umana: a nessuno di loro io devo un’obbedienza assoluta!

[San] John Henry Newman (a cura di Valentino Gambi), Lettera al duca di Norfolk: coscienza e libertà, Paoline, Milano, 1999, p. 105

E ancora, dello stesso autore:

Senza dubbio, se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla Coscienza, poi al Papa.

Ibidem, pp. 236-237

«Date a Cesare quel che è di Cesare»… ma cosa è di Cesare?

L’affermazione successiva, in cui san Paolo esorta al pagamento delle tasse e delle imposte22Cfr. Rm 13,6-7., viene definita un semplice espediente retorico simile a quello a cui fece ricorso Gesù nel rispondere alla domanda sul pagamento del tributo a Cesare (l’analizzeremo approfonditamente in seguito). San Paolo dice: «Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto». Ora, a chi sono dovuti tasse e tributi? La risposta potrebbe anche essere «a nessuno»…

Difatti, nel versetto successivo, si legge: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso».

«Quindi eccoci qui, senza mezzi termini: non dobbiamo niente a nessuno se non il fatto di amarci l’un l’altro! Ma da quando le tasse hanno mai avuto a che fare con l’amore?», commenta molto opportunamente Redford. L’amore, aggiungiamo noi, basta come legge e tributo; l’amore, inoltre, non comporta una privazione per chi lo dà, dunque è l’unica legge giusta e perfettamente compiuta23Cfr. Rm 13,10., esauriente, nel senso che tutte le leggi divine possono essere riassunte (se non sostituite) in (da) questa.

Se la legge dell’amore non priva di nulla e non limita, lo stesso non si può dire dei decreti dei governanti terreni, che in certi casi rappresentano «un deterrente per le opere buone»24P. 31.. A questo proposito, san Paolo racconta le sue tribolazioni vissute «a causa del vangelo», ma in realtà a causa delle autorità dell’impero romano, che lo fecero incarcerare costringendolo a sospendere la sua opera di predicazione25Cfr. 2Tm 2,9..

L’espressione massima dell’oppressione dello Stato ai danni dei cittadini si ha nella burocrazia; un’oppressione sommamente frustrante, ben esplicitata in un versetto dell’Ecclesiaste (8,9) che nel libro è reso così: «L’uomo domina sull’altro uomo per renderlo infelice».

Più sopra abbiamo fatto cenno all’episodio evangelico in cui Gesù sembrerebbe esortare al pagamento del tributo a Cesare26Cfr. Mt 17,24-27.. La celebre frase «date a Cesare quel che è di Cesare» venne pronunciata in risposta alla provocazione di «alcuni farisei ed erodiani» che lo interrogarono per coglierlo in fallo. Questa uscita geniale e volutamente ambigua lasciò senza parole i suoi interlocutori, pronti ad accusarlo qualunque fosse stata la sua risposta. Come si legge nel Vangelo di Luca, infatti, gli informatori intendevano «consegnarlo all’autorità e al potere del governatore», nel caso in cui avesse manifestato apertamente la sua opposizione al pagamento del tributo; sempre nel Vangelo di Luca, qualche pagina dopo, ritroviamo tra i capi d’imputazione del processo effettivo anche l’aver istigato a non pagare i tributi a Cesare, sebbene Gesù non avesse espresso formalmente la sua contrarietà.

D’altro canto, se la risposta fosse stata «sì, è lecito», Gli avrebbero dato del “collaborazionista” degli occupanti romani: insomma, vista e considerata la situazione, Gesù dimostrò un’intelligenza, una prudenza e anche una diplomazia davvero fuori dal comune; da-vero Dio.

Ma ci sarebbe un altro significato recondito, dietro alla sapiente risposta di Gesù, spesso citata dagli statalisti per dimostrare la fondatezza (presunta!) delle loro tesi. Gesù vuol suscitare una domanda: cosa è di Cesare? «Il fatto che i denari hanno semplicemente il nome e l’immagine di Cesare su di essi non li rende suoi, così come il fatto che uno incida il proprio nome sulla parte posteriore di un televisore rubato non rende il televisore proprietà di questi. Al contrario, tutto ciò che Cesare possiede, lo ha preso con il furto e l’estorsione, dunque niente è di diritto suo»27P. 22..

Chiosa Piombini a pagina 112: «… il segno di Cesare segna anche il suo limite. Esso si trova, oltre che sulle monete d’argento, sui monumenti pubblici, su alcuni altari e basta. Su tutto il resto Cesare non ha alcun diritto. Il suo regno è molto limitato e si può, in nome del diritto di Dio, opporsi alla maggior parte delle sue pretese».

Se il segno di Cesare si trova su poche cose, il segno di Dio – al contrario – è impresso in tutta la creazione. Motivo per cui è Dio l’unico Sovrano legittimo a cui tutti – prima o poi – dovranno rendere conto. Si badi bene: è possibilissimo, per un uomo, disobbedire ai comandamenti di Dio; non lo è, invece, disobbedire ai comandi di un re o di un governante terreno, a pena di finire ulteriormente cassato e deprivato della propria libertà. Viene dunque spontaneo evidenziare, ancora una volta, che i governanti terreni sono persino più autoritari di Dio, e in questo senso fanno cose che Dio stesso (giustamente) non fa, avendoci creati ragionevoli e perciò liberi.

Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute.

Rm 1,20

Ora, qualcuno potrebbe ragionevolmente obiettare che alla fine della vita dovremo comunque presentarci al cospetto del Tribunale divino dove rendere conto, dicevamo prima, delle nostre azioni. In quel caso, però, il giudizio verrà formulato sulla base della Legge di Dio, una Legge indubbiamente giusta e giusta universalmente, non soltanto dal punto di vista del nostro Legislatore e Giudice. La responsabilità di chi legifera sulla terra è enorme, dal momento che è impossibile per un essere umano avere la certezza assoluta di fare sempre la cosa giusta e la cosa migliore. E non solo migliore “per me” o “per la maggioranza”, ma migliore “per tutti”, rispettosa delle coscienze e delle sensibilità di tutti. Ce l’avrà fino a quando agirà conformemente alla Volontà di Dio rivelata (es. emanando una legge o un decreto conforme alla norma divina «non uccidere»), ma sarà difficile essere certi di operare bene, giustamente, eticamente, quando si tratterà di entrare in campi più minati in cui le sensibilità dei singoli giocano un ruolo fondamentale.

Legge naturale e legge positiva: la Legge (di Dio) è iscritta nel cuore dell’uomo

Inoltre, ricordiamo che la Legge di Dio non è soltanto “di Dio”: tale Legge è iscritta nei nostri cuori, è nostra, di fatto, ed è l’unica che può essere universalmente condivisa – almeno nel potenziale – perché buona oggettivamente e benefica per tutti e ciascuno. Scrive san Paolo a proposito dei pagani che – «pur non avendo la Legge» (cioè la rivelazione) – erano «legge a loro stessi»: «Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono»28Rm 2,15..

«Così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini»29Rm 2,16.: cioè sarà la loro stessa coscienza a rimproverarli, a giudicarli degni o non degni di stare al cospetto di Dio (che è perfezione assoluta). Un’anima imperfetta non può in nessun modo sostenere il Suo sguardo, ed è lei stessa a precipitarsi nell’inferno; in questo senso, dunque, Dio non condanna nessuno (trattasi piuttosto di auto-condanna).

Ciò che è essenziale è agire sempre secondo coscienza, meglio ancora se la coscienza è “cristianamente” formata. In base a questo, infatti, saremo giudicati.

Giudicati – precisa san Giacomo (2,12) – «secondo una legge di libertà» che ci porta ad agire spontaneamente «sotto l’impulso della carità»30CCC 1972.. «Infine – si legge nel Catechismo – ci fa passare dalla condizione di servo “che non sa quello che fa il suo padrone” a quella di amico di Cristo “perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15), o ancora alla condizione di figlio erede».

Non è così scontato che le autorità umane facciano altrettanto, promuovendo politiche di coinvolgimento attivo dei cittadini nelle scelte pubbliche. Al contrario, i membri della cosiddetta “casta” badano ai loro interessi, più che a quelli della popolazione, e la loro arroganza, le loro pretese, derivano proprio dal fatto che il potere è concentrato tutto nelle loro mani.

La concentrazione di potere genera l’abuso

La concentrazione del potere rappresenta quantomeno una tentazione, per chi lo detiene ma anche per chi lo subisce. «All’opposto di quanto pensava Hobbes, è la concentrazione di potere che genera l’abuso»31P. 139.: «I membri dello Stato sanno di non correre alcun rischio di ritorsione e possono quindi opprimere le proprie vittime in totale sicurezza». Vale la pena riportare per esteso il pensiero di Piombini:

«Le famiglie e gli individui che convivono in aree isolate, lontane dalle istituzioni governative, non si comportano mai nel modo ipotizzato da Hobbes e da Golding. Infatti, in tali circostanze, come fa notare il filosofo Michael Huemer, aggredire i propri vicini per rapinarli sarebbe un comportamento veramente illogico. I rischi di attaccare qualcuno dotato di una forza analoga alla propria superano di gran lunga i benefici, perché l’aggredito o i suoi familiari potrebbero difendersi o reagire in ritorsione. Gli atteggiamenti violenti, inoltre, suscitano la diffidenza degli altri abitanti, che adotterebbero misure preventive. La verità è che la stragrande maggioranza degli esseri umani non è sociopatica, ma desidera vivere in pace col prossimo, ha forti obiezioni morali e forti sentimenti negativi nei confronti della violenza e del furto, trova più vantaggioso e profittevole collaborare e cooperare con gli altri e reputa che la strategia migliore sia quella di produrre, comprare, vendere, scambiare con mutuo profitto beni, informazioni e risorse, anziché ricorrere a soluzioni violente e conflittuali. Quando la prudenza e la morale puntano verso la stessa direzione, praticamente tutti sceglieranno quel percorso.

Il punto è che l’uguaglianza di potere genera il rispetto. Nessuna persona razionale ha interesse a entrare in un conflitto violento con avversari che hanno la stessa forza. Le probabilità di perdere il conflitto sono troppo alte. Anche il vincitore apparente, probabilmente, starà peggio che all’inizio del conflitto, perché il danno causato dal combattimento è quasi sempre maggiore del valore delle risorse che vengono contese. Per queste ragioni, gli individui ragionevoli, se non sono costretti, combattono solo battaglie difensive.

L’esistenza dello Stato crea invece un grande squilibrio di potere a favore di alcuni individui. La presenza all’interno della società di un’organizzazione enormemente più forte di tutte le altre toglie a coloro che ne fanno parte ogni timore dettato dalla prudenza»32Pp. 138, 139..

Insomma: non ci sarebbe motivo di entrare in conflitto con una persona come me dal punto di vista dei diritti e del potere. La violenza viene innescata dalla frustrazione e dal malcontento; ma non avrei niente di cui lamentarmi, niente di cui essere scontento, niente da “compiangere” rispetto ai beni e alle fortune del mio prossimo, se entrambi fossimo nella medesima condizione, senza squilibri di forza, senza ingiustizie.

A questo punto, però, un dubbio sorge spontaneo: che faremmo di eventuali “matti” o “squilibrati”, ovvero di quelle persone che – a causa del peccato – agiscono in maniera irragionevole e costituiscono una minaccia per sé e per gli altri? Ci viene da pensare che già solo il fatto di vivere in una società “equilibrata” come quella descritta contribuirebbe in larga parte alla diminuzione dei casi di malattia mentale; ma è un’aspettativa ragionevole? Insomma: questa nuova organizzazione della società sarebbe compatibile con la condizione dell’uomo post-peccato originale?

Il dott. Masciullo ci invita anzitutto a considerare che “società anarchica” – senza Stato – non vuol dire “società anomica” – senza legge –; ma di questo parleremo approfonditamente in un articolo futuro.

Un’“organizzazione criminale” su larga scala

Murray Rothbard
Murray Rothbard (1926-1995), economista e filosofo statunitense, principale esponente dell’anarco-capitalismo

Date le ingiustizie che pone in essere, lo Stato è visto da qualcuno33L’economista statunitense Murray Rothbard, principale esponente dell’anarco-capitalismo. addirittura come una vasta organizzazione criminale, non diversa dalle comuni mafie private. «Questa consapevolezza è presente in Sant’Agostino, il quale, in un noto passo de La Città di Dio, definisce i regni della terra come magna latrocinia. Sant’Agostino ricorda l’episodio di un terribile pirata razziatore dei mari che fu catturato e portato al cospetto di Alessandro Magno, il quale gli chiese perché conducesse una vita così criminale. Il pirata rispose all’imperatore: “Faccio esattamente le stesse cose che fai tu. Solo che io possiedo una piccola nave e sono chiamato pirata. Tu possiedi una grande flotta e sei chiamato imperatore”»34P. 129.. Specifica ulteriormente Piombini in una nota: «Secondo Mancur Olson, l’unica differenza tra un brigante e lo Stato è che il primo è un predone nomade (che piomba sulle sue vittime, le depreda e poi si allontana), mentre il secondo è un predone stanziale, che è riuscito a stabilire un monopolio regolare del furto in una certa area territoriale»35P. 204..

Tale paragone è stato ripreso anche da san Gregorio VII, papa, nella sua lotta contro i monarchi europei nell’undicesimo secolo. In realtà, nel Medioevo, la situazione era leggermente migliore di quella attuale, dal momento che i re non potevano, senza il consenso dei propri sudditi, tassare, legiferare o pretendere il monopolio della forza. Potevano al massimo «esigere i canoni, i fitti, i pedaggi, i servizi feudali concordati contrattualmente con i propri vassalli e i contributi che il popolo volontariamente gli autorizzava per le necessità del regno (ad esempio per contrastare un’invasione), ma nulla più». Erano giudici supremi, ma non avevano potere legislativo: non potevano inventarsi le leggi, ma potevano legittimamente raccogliere e far rispettare le costumanze del regno. Si rimanda a tal proposito alle note 200 e soprattutto 202, dove è presente un elenco degli articoli del nostro codice penale che sarebbero immediatamente applicabili alle azioni commesse dagli uomini dello Stato: tanto per fare un esempio, la tassazione presenta tutti gli elementi dell’estorsione (art. 629 c.p.), la leva militare obbligatoria rientra nella fattispecie del reato di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), i comandi o i divieti che coinvolgono la vita privata in quello di minacce (art. 612 c.p.)… insomma, in quest’ottica, lo Stato è il primo a non rispettare le sue leggi.

Come lo Stato ci svilisce

Un’altra criticità che finora non abbiamo evidenziato riguarda il fatto che lo Stato deresponsabilizza i suoi cittadini. Gli statalisti vedono i cittadini/sudditi quasi come dei bambini (irragionevoli, incapaci di gestirsi in autonomia) o peggio degli animali, che nelle situazioni di stress, di pericolo o di emergenza reagiscono istintivamente, in maniera irriflessiva, senza ponderare le conseguenze. In particolare, in tali situazioni, l’uomo si rivelerebbe più egoista e “inumano” che mai, farebbe emergere il primo dei suoi “istinti36A proposito di animali! Già solo parlare di “istinti”, in riferimento a un essere umano, è svilente., vale a dire l’istinto di sopravvivenza, e calpesterebbe il prossimo allo scopo di salvarsi. Ma è davvero così?

Secondo Piombini, ovviamente, no. E non solo secondo lui: lo dimostra la storia, lo dimostrano le storie dei sopravvissuti a tutti quegli eventi apparentemente drammatici come bombardamenti, alluvioni, naufragi e incidenti aerei che hanno fatto sempre puntualmente emergere… l’umanità di un essere per natura sociale e solidale.

Prendiamo in esame la tragedia del Titanic: un testimone oculare riferì che non ci fu una ressa generale, le persone non si lasciarono prendere dal panico e nessuno gridava per la paura, anzi affrontarono il dramma in maniera molto intelligente e ordinata, consapevoli che le scenate non avrebbero risolto nulla e che la cosa migliore che si potesse fare, in quegli istanti concitati, era mantenere la calma e agire in maniera riflessiva. Sulle scialuppe, poi, gli uomini diedero la precedenza alle donne e ai bambini senza fare questioni.

Un modo di fare e di gestire la situazione diverso da questo è semplicemente inimmaginabile: soltanto un uomo estremamente immaturo avrebbe potuto rifiutarsi di cedere il posto a qualcuno di più debole, accettando poi il rischio di essere bollato come un mostro (come tale, inumano) o un vile.

Lo stesso scenario si ripresentò in occasione dell’attentato alle Torri Gemelle del 2001, con migliaia di persone che scesero pazientemente le scale dei due edifici dando se necessario la precedenza ai feriti.

Ma Piombini cita ancora un altro episodio, quello dell’alluvione di New Orleans causato dall’uragano Katrina del 2005. In questa occasione, la società civile si autorganizzò per prestare agli sfollati soccorsi e alimenti, a dispetto dei timori delle autorità che paventavano lo scoppio di una guerra di tutti contro tutti atta ad accaparrarsi le poche risorse disponibili. Le prime difficoltà insorsero con l’arrivo della polizia in assetto di guerra, un’ingerenza che provocò anche la morte di diversi civili.

Il racconto approfondito di queste vicende si trova nel libro di Rutger Bregman, Una nuova storia (non cinica) dell’umanità, a cui Piombini rimanda in una nota a pagina 136. In questo saggio, Bregman sottolinea come la maggior parte dei romanzi e dei racconti distopici non sia per nulla verosimile, a cominciare da Il signore delle mosche di William Golding, la storia di venti giovani naufraghi che – dopo un primo tentativo di autogoverno – finiscono per far emergere comportamenti antisociali e paure irrazionali che li spingono a recarsi danno l’un l’altro.

L’autore intendeva dimostrare che gli uomini, lasciati “allo stato brado” – cioè lasciati liberi –, regrediscono un po’ alla volta verso una condizione sempre più “primitiva” e “ancestrale” (come dicono erroneamente gli evoluzionisti, tra l’altro). La vicenda reale, contrapposta a questo scenario fantasioso, dimostra però l’esatto contrario: nel 1966, sei ragazzi furono trovati naufraghi in una piccola isola dell’arcipelago di Tonga. In 15 mesi di permanenza sull’isola, i giovani – di un’età compresa tra i 13 e i 16 anni – si erano industriati e avevano scavato un orto, costruito un pollaio e inaugurato persino una palestra con annesso campo di badminton. In caso di bisticci, i due litiganti venivano tenuti a distanza fino a quando non si fossero riconciliati. Non solo: i ragazzi si improvvisarono anche medici, e all’arrivo dei soccorsi erano tutti e sei in ottime condizioni fisiche e mentali.

Più sopra abbiamo detto che lo Stato “deresponsabilizza”; troviamo un’ulteriore conferma di questa affermazione a pagina 70 del nostro libro, punto di partenza di un lungo approfondimento sul “problema della droga”. Il nostro autore lo riporta proprio così, tra virgolette: secondo lui, infatti, non c’è nessun “problema della droga”; c’è piuttosto un problema di “problematizzazione della droga”!

«La guerra alle droghe perpetrata dal governo ha trasformato quello che una volta era un problema individuale in un problema sociale, inventando nuovi “crimini” fasulli che in realtà non aggrediscono nessuno, mentre hanno generato un’intera industria del crimine organizzato (proprio come avvenne durante il Proibizionismo)»37P. 70..

La partita, ancora una volta, si gioca tra i concetti di “individuale” e “collettivo”, “individuale” e “sociale”:

«L’effetto della legalizzazione libertaria sarebbe quello di rendere la droga di nuovo un problema individuale, invece del grave problema sociale che è oggi. […] Se non fosse per la guerra alle droghe attuata dal governo, le guerre tra bande, i furti e altri vari veri crimini che sono causati dalla distribuzione di droghe e l’approvvigionamento di denaro per sostenere l’assuefazione alle droghe, il cui prezzo è stato artificialmente gonfiato, non esisterebbero.

Quanti negozi di liquori assistono a sparatorie tra di loro? Eppure, quando l’alcol era illegale, i distributori di alcol sul mercato nero ritenevano necessarie le sparatorie e gli omicidi. Questo perché, dal momento che i loro affari erano illegali, non avevano accesso ai tribunali in cui risolvere le proprie controversie; inoltre, dato che il loro business era illegale, la posta in gioco in termini economici era ben più alta, perché si rischiava la prigione – così è diventato perfino redditizio ricorrere all’omicidio per risolvere i problemi che altrimenti avrebbero portato all’arresto. E quanti fumatori di tabacco ricorrono al furto e alla prostituzione per sostenere il proprio vizio? Eppure, gli studi hanno dimostrato che il tabacco assuefà più dell’eroina. […]

Se l’eroina o il crack fossero legali non costerebbero di più (anzi, probabilmente di meno) del tabacco e, così, gli eroinomani e i crackomani sarebbero in grado di sostenere il proprio vizio con un lavoro regolare, invece di ricorrere al furto e alla prostituzione»38Pp. 70, 71, 72..

Insomma, le ingerenze dello Stato in (presunti) problemi “collettivi” come quello della droga non fanno altro che esasperare le cose e addirittura, in certi casi, dare vita indirettamente a dei problemi peggiori di quelli che si volevano risolvere (quando si dice: “la soluzione è peggiore del problema”!).

Sia chiaro: il vizio dell’alcol, il vizio del fumo, il vizio delle droghe sono vizi (peccati) e tali rimangono. I vizi, però, sono problemi di tipo individuale, non sociale, e come tali vanno affrontati; inoltre, non è giusto demonizzare quelle che sono e rimangono piante, creazioni di Dio, che come tali possono tranquillamente essere trasformate in cibo (si pensi per esempio ai biscotti alla marijuana: gli antichi dicevano “il veleno è nella quantità”, ma il veleno potrebbe anche essere nella “modalità”, cioè nel modo sbagliato in cui assumiamo qualcosa, fumandola anziché ingerirla!):

Infatti, tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera.

1Tm 4,5

Cristianesimo e liberalismo: due esercizi complicati

Abbiamo già cominciato a farci un’idea circa la possibilità reale di un autogoverno, ma per alcuni questa eventualità potrebbe apparire ancora come un’utopia. D’altra parte, come diceva il pensatore spagnolo José Ortega y Gasset, «non deve sorprendere se subito questo stesso genere umano sembri risoluto ad abbandonarlo [il liberalismo]. È un esercizio troppo difficile e complicato – aggiungeva – perché si possa consolidare sulla terra». Gli fa eco Piombini: «Andando contro il naturale istinto umano alla sopraffazione, il liberalismo rappresenta un principio paradossale, acrobatico, antinaturale, troppo bello e quasi inverosimile».

Ma allora, questa ipotesi è o non è fattibile? La risposta è sì, almeno quanto lo è il cristianesimo. Tra le altre cose, liberalismo e cristianesimo condividono questo aspetto paradossale: «… agli occhi disincantati dei “realisti”, i loro principi sembrano inapplicabili alla società umana. […] Questa consonanza […] non è certo casuale, dato che la dottrina del liberalismo classico non è altro che la trasposizione, in forma laicizzata, dei comandamenti biblici, che impongono il rispetto assoluto degli altri individui, in quanto fatti a immagine e somiglianza di Dio».

Effettivamente, nemmeno l’ideale cristiano si presta a una facile applicazione (almeno non all’inizio). Ma la verità è un’altra: come diceva Chesterton, l’ideale cristiano non è stato «provato e trovato carente»; è stato, piuttosto, «trovato difficile e non provato».

Il principio generale dell’anarco-capitalismo

Alla base della società libertaria o anarco-capitalista ci sarebbe il principio di non aggressione e anche una clausola che potremmo definire della “libertà relativa”: ogni uomo è libero di fare ciò che vuole con ciò che è proprio39Cfr. p. 87.. La libertà, nel senso in cui la intendiamo noi, è appunto la libertà di controllare ciò che si possiede senza essere molestato da altri. La libertà, dunque, è una questione strettamente personale, e non esiste alcuna libertà di fare del male al prossimo, semplicemente perché il campo di applicazione della mia libertà si limita all’amministrazione delle mie cose, alla cura della mia persona. La libertà, in altre parole, non è un concetto collettivo; non esiste la “nostra” libertà, ma la “mia” libertà. E se l’altro è uguale a me, nell’esercizio della sua libertà, cioè vanta gli stessi diritti e gli stessi doveri, perché dovrei sentirmi frustrato? Perché dovrei finire per fargli del male? Sarebbe come ribellarsi a se stessi: perché sì, a quel punto il mio prossimo sarebbe davvero amabile “come me stesso”, mi riuscirebbe facile, cioè, empatizzare con lui.

E – perché no – il mio prossimo sarebbe anche qualcuno con cui allearsi, anziché guerreggiare. “Allearsi” non “contro” qualcuno, ma “a favore di” tutti… senza dimenticare “ciascuno”.

La gestione dei bisogni sociali in una società senza Stato
Lev Tolstoj
Lev Tolstoj (1828-1910), scrittore e filosofo russo, non si definì mai “anarchico”, ma sempre e solo “cristiano”. A suo dire, infatti, nella definizione di cristiano è inclusa quella di anarchico: «Mi considerano anarchico, ma io non sono anarchico, sono cristiano. Il mio anarchismo è solo l’applicazione del cristianesimo ai rapporti fra gli uomini» (dai Diari, 24 agosto 1906).

Nello specifico, gli uomini potrebbero provvedere ai bisogni cc.dd. “sociali” con una sottoscrizione volontaria, facendo a meno degli esattori d’imposta. «A che giovano gli esattori d’imposte che adempiono a malincuore al loro compito, poiché si possono riunire senza di loro le somme necessarie?», suggerisce Tolstoj nel suo saggio Il regno di Dio è in voi40Pp. 289, 290..

Piombini esplicita ancora meglio questo pensiero: «Vediamo che, ai giorni nostri, nelle più diverse circostanze, gli uomini arrivano a organizzare da se stessi la vita, molto meglio di come riuscivano a fare i governi. Vediamo formarsi senza l’appoggio del governo e spesso malgrado il suo intervento, tutta una serie di istituzioni sociali: sindacati di operai, società cooperative, compagnie ferroviarie. Se per creare un servizio sociale abbiamo bisogno di raccogliere una certa quantità di denaro, perché pensare che degli uomini liberi non la forniscano senza costrizione? Noi siamo talmente depravati da una lunga schiavitù – osserva Tolstoj – che non riusciamo più a immaginarci un’amministrazione che non si appoggi sulla forza. Tuttavia, ne esistono: le comunità russe che emigrano in contrade lontane in cui il nostro governo non può immischiarsi nei loro affari, si autogovernano e prosperano fino al giorno in cui il governo del Paese interviene e impiega le sue procedure violente»41Cfr. Guerra e rivoluzione, Feltrinelli, 2015 (1906), Milano, p. 44..

«Lo Stato – conclude Tolstoj – è una crudele superstizione che ancora affligge l’umanità e una coscienza autenticamente cristiana non può che rifiutarlo. Lo Stato è violenza e la rivoluzione cristiana che deve verificarsi dovrà allora essere rifiuto della violenza, sempre e comunque»42Guerra e rivoluzione, Feltrinelli, 2015 (1906), Milano, p. 120..

Non “anarchici”, ma “anarco-capitalisti” e “anarchi”

È importante sottolineare questo aspetto: la “rivoluzione” che noi proponiamo non è in nessun modo una rivoluzione violenta; se lo fosse, faremmo lo stesso gioco dei Governi. Non solo: giustificheremmo la loro esistenza.

«… ogni tentativo di rivoluzione non procura che una nuova giustificazione della violenza dei Governi e aumenta la loro potenza», leggiamo ancora a pagina 156. È anche per questo che non abbiamo nessuna pretesa, nemmeno remota, di convincervi. Qualora l’avessimo, la nostra sarebbe quasi una “dittatura della libertà”.

Bandiera anarco-capitalismo
La bandiera nera e oro è il simbolo di questo sistema politico: il nero rappresenta l’anarchismo; l’oro rappresenta il capitalismo.

Non è nemmeno nostro intento quello di eccitare nel lettore idee sovversive o incitare all’anarchia. Non la chiamiamo “anarchia” di proposito: per prima cosa, evidenzia Piombini43P. 105., il movimento anarchico è «geneticamente e ideologicamente intrecciato con il socialismo». Dunque, al pari del marxismo, è stato spesso «nemico della proprietà e degli ordini naturali della società, come la famiglia, le gerarchie naturali44Anche in Cielo esiste una gerarchia, eppure nessuno domina sull’altro: le diversità stabilite da Dio vanno viste nell’ottica della complementarietà., l’impresa, il commercio».

Per rimuovere ogni ambiguità, si propone la formula “anarco-capitalismo”, che contiene in sé il riferimento all’anarchia in quanto «assenza di un potere statale centralizzato dotato del monopolio legittimo della violenza» e al capitalismo, inteso come «una cultura diffusa che considera sacri e inviolabili i diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà». «Il primo è l’aspetto puramente negativo e il secondo è l’aspetto positivo e culturale»45P. 106..

Anarchia e atarassia

Un’altra definizione interessante è quella di “anarca”, termine coniato dallo scrittore e filosofo tedesco Ernst Jünger nel XX secolo46Per approfondire, leggi L’anarca di Jünger e la libertà nella natura di Gaetano Masciullo.. La distinzione tra “anarca” e “anarchico” è proposta nel romanzo Eumeswil (1977), in cui l’autore chiarisce che l’anarchico è colui che si lascia ossessionare dal potere e dall’idea di dover a tutti i costi contrastarlo; essendo l’ossessione un’altra forma di schiavitù – la più subdola e insidiosa, proprio perché interiore –, nemmeno l’anarchico è realmente libero.

L’anarca, al contrario, vive l’idea(le) della libertà in maniera ancora più radicale e radicata, profonda, una maniera che coinvolge lo spirito. L’anarca non usa il potere (la violenza) per contrastare il potere. Piuttosto, impiega la “miglior arma” per antonomasia, l’indifferenza, prendendo le distanze dalla società e dal tempo storico (relativo) per aprirsi a una nuova dimensione meno gretta, limitata e limitante. Si tratta, se vogliamo, di fare un atto di fede e di abbandono e di iniziare a vedere le cose da una prospettiva infinitamente più ampia, la stessa prospettiva di Dio.

Lotta interiore e lotta esteriore: fare violenza a se stessi, piuttosto che agli altri

Oltre a essere un uomo di fede, l’anarca è anche un novello stoico. Un vero combattente, già allenato alla lotta contro se stesso e le proprie passioni, che non si lascia certo intimidire da un tiranno che stavolta è fuori di sé (in tutti i sensi). Così manifesto, così esposto, così debole. Così sfacciato da rivelarsi per quello che è: insensato; folle.

Tanto folle che è inutile dialogarci. Diremmo che lo Stato va assecondato, se fossimo sicuri di non correre il rischio di passare per imbelli. Più che assecondato, infatti, va “ignorato”, dimostrando così la sua inutilità, dimostrando che possiamo farne a meno. Una lotta sì, ma una lotta da uomini pacifici. Di più: da uomini cristiani.

I nemici rivoluzionari lottano esternamente contro il governo, mentre i cristiani, senza lotta, distruggono internamente tutti i principi sui quali riposa lo Stato.

P. 157

Cristianesimo e filosofia libertaria possono corroborarsi a vicenda

In quest’ottica (e non solo), cristianesimo e filosofia libertaria possono dunque «corroborarsi a vicenda»47P. 231.. Da una parte, il cristianesimo può fornire alla teoria libertaria una più ampia base metafisica, giustificando la tesi sulla dignità del singolo individuo e l’inviolabilità dei suoi diritti naturali; dall’altra, la teoria libertaria può far comprendere ai cristiani che impegnarsi nei processi di mercato «pacifici e volontari» è un modo fruttuoso di impiegare i talenti ricevuti da Dio e – al tempo stesso – di adempiere al comandamento della carità.

Rispetto alla carità in senso stretto (l’elemosina), l’attività imprenditoriale e commerciale ha sempre soddisfatto i bisogni vitali delle persone in misura «incomparabilmente superiore», anche perché la prima, per essere efficace, «necessita di una preesistente produzione di ricchezza». Ecco dunque spiegato perché il libertarismo è una forma straordinaria di carità (stavolta intesa nel senso di amore vicendevole).

Un’altra visione vorrebbe che il cristianesimo fosse esso stesso una forma di anarchia: per dirla con Tolstoj, l’anarchismo è (o “potrebbe essere”) «l’applicazione del cristianesimo ai rapporti fra gli uomini»48Dai Diari, 24 agosto 1906..

Questi i suoi argomenti:

«Il cristianesimo nel suo vero significato distrugge lo stato. Esso fu compreso così fin dal principio ed è per ciò che il Cristo fu crocifisso. È stato compreso così in ogni tempo dagli uomini non legati dalla necessità di giustificare lo stato cristiano. Solo quando i capi dello stato accettarono il cristianesimo nominale esterno, si cominciarono ad inventare le teorie sottili secondo le quali il cristianesimo si può conciliare con lo stato. Ma, per ogni uomo sincero del tempo nostro, non può non essere evidente che il vero cristianesimo – la dottrina della rassegnazione, del perdono, dell’amore – non può conciliarsi con lo stato, col suo dispotismo, con la sua violenza, con la sua giustizia crudele e con le sue guerre. Non solo il vero cristianesimo non permette di riconoscere lo stato, ma ne distrugge i principi stessi»49L. Tolstoi, Il regno di Dio è in voi, op. cit., cap. X, p. 254..

Altri riferimenti scritturistici

C’è un motivo preciso per cui un cristiano non può50Secondo questa tesi! riconoscere lo Stato come autorità legittima: i regni e i governi terreni, infatti, non sono che una riproduzione maldestra dell’unico Regno possibile – il Regno di Dio –, “maldestra” perché le due realtà sono simili in tutto51Una similitudine “buona” tra il Regno di Dio e i regni degli uomini riguarda la loro organizzazione, in entrambi i casi di tipo gerarchico., tranne che nei princìpi. Se il Regno di Dio si basa sulla libertà52Diciamo questo perché in Paradiso, di fatto, entra solo chi ha scelto liberamente di aderire alle Sue Leggi., i regni mondani si basano sulla coercizione; se in paradiso governa chi è più debole, sulla terra governa chi è più forte.

Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti […]».

Mc 10,42-44

Il Regno descritto da Cristo è libero proprio perché i servi sono posti a capo di tutti. E i servi, per definizione, non danno ordini.

Gesù stesso ha assunto la condizione di servo53Cfr. Fil 2,7. e ha dichiarato esplicitamente di essere venuto per servire, non per essere servito54Cfr. Mc 10,45.. D’altra parte, molti dei suoi comportamenti denotano una certa insofferenza nei confronti dell’autorità costituita e dei suoi ordini arbitrari. Si pensi all’episodio della tassa per il tempio (Mt 17,24-27), in cui il Maestro afferma chiaramente che coloro che pagano tasse e tributi non sono non sono “figli”, non sono liberi55Ricordiamo che “figli”, in latino, si dice appunto liberi.. Lo riportiamo qui sotto per esteso:

Quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». Rispose: «Sì». Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». Rispose: «Dagli estranei». E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala loro per me e per te».

Che significato ha questo modo di comportarsi? Lo spiega Piombini a pagina 113: «Il potere che ordina di riscuotere la tassa è risibile e vien fatto un miracolo assurdo per dimostrare a qual punto il potere sia senza importanza. È un miracolo destinato a dimostrare l’indifferenza totale di Gesù verso il re e le autorità del tempio».

Invero, anche i profeti dell’Antico Testamento manifestano uno spiccato sentimento anti-monarchico o anti-statale: di fronte a ogni re si erge sempre qualcuno che dice di parlare in nome di Dio e si dimostra un severo critico nei confronti dell’azione monarchica. Il profeta veterotestamentario è un outsider, non viene mai integrato nel sistema, ed è proprio in virtù della sua estraneità a certe dinamiche che si mantiene puro e può permettersi di sindacare sull’operato dei potenti. La sua funzione, direbbe Ellul, è proprio quella di “contropotere”.

Jacques Ellul
Jacques Ellul (1912-1994), sociologo e teologo francese, figura essenziale dell’anarchismo cristiano

Sempre Ellul, un altro esponente illustre dell’anarchismo cristiano, fa notare che i racconti biblici contenenti le “malefatte” dei sovrani d’Israele sono stati redatti e resi pubblici proprio nel periodo in cui essi regnavano. «La censura e il controllo dovevano pur esistere, tuttavia questi scritti sono stati non solo conservati, ma ritenuti ispirati da Dio, che dunque appare come l’avversario del potere reale e dello Stato»56P. 108..

Come epigrafe, in apertura, abbiamo riportato il retroscena della salita al trono di Saul, primo re d’Israele. Fino ad allora, il popolo eletto aveva vissuto in una condizione di simil-anarchia, dove eventuali controversie tra tribù venivano risolte da alcuni Giudici o mediatori “privati”. Guardando alle altre nazioni, Israele dichiarò che sarebbe stato meglio avere un re, anche perché l’organizzazione centralizzata avrebbe reso più facile condurre le guerre. Niente di più vero, constatiamo con una punta di (amara) ironia: «Nessuna delle vicende più atroci della storia dell’umanità sarebbe mai stata possibile senza il condizionamento mentale esercitato dal potere statale sugli individui». La constatazione che Piombini fa a questo riguardo è fondamentale e non possiamo fare a meno di riportarla per intero: «Il Male generato dallo Stato, a differenza di quello individuale, è satanico perché nasce sempre da un’opera di inganno e manipolazione, nel quale il Male viene mascherato da Bene ed è capace così di sedurre quasi tutti i membri della società. La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, ma il male non si trova sulla superficie dell’animo umano; sono necessari molti sforzi per farlo affiorare. E, particolare più importante, deve essere inevitabilmente camuffato da Bene. Tutte le peggiori nefandezze della storia ai danni degli esseri umani, gulag e lager compresi, sono state motivate e giustificate dalla necessità di perseguire un Bene superiore a quello dell’individuo: bene della società, bene comune, bene collettivo, bene della nazione, bene del popolo. In ogni caso, mai in nome del bene del singolo individuo»57P. 150..

Il potere e la gloria dei regni sono in mano a satana

Il Male generato dallo Stato nasce da un’opera di inganno, di manipolazione, di propaganda, perciò è propriamente “satanico”.

Il diavolo è il divisore e l’ingannatore per antonomasia, entrambi attributi condivisi con gli Stati: dell’“essenza” satanica dei regni del mondo troviamo conferma in più passaggi della Sacra Scrittura, tra tutti la narrazione delle tentazioni di Gesù contenuta in Mt 4,1-11, Mc 1,12-13 e Lc 4,1-13.

Il diavolo insidia Gesù con queste parole: «Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio. Se ti prostri davanti a me, tutto sarà tuo».

L’offerta è genuina e Gesù non la contesta: semplicemente, satana è il principe di questo mondo e i regnanti umani partecipano loro malgrado di questo principato, di questa potestà.

Risuonano nella mente le parole di san Paolo58Cfr. Ef 6,12.: la nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne – coloro che detengono il potere politico –, ma contro i Principati e le Potestà, gli spiriti del male che “abitano nelle regioni celesti” ed estendono indirettamente il loro dominio a “questo mondo di tenebra”.

Per ovvie ragioni di carità, non possiamo assolutamente pensare che i politici siano in cattiva fede. L’abbiamo detto più sopra: con questa trattazione non vogliamo suscitare ulteriore divisione tra gli uomini (faremmo il gioco del nemico!), bensì unirli tutti sotto il comune vessillo della Croce. Per combattere il Leviatano alla maniera cristiana.

La Bestia dell’Apocalisse è lo Stato-Leviatano di Hobbes
Frontespizio “Leviatano”
Il frontespizio del Leviatano

Nel suo Anarchia e cristianesimo59P. 97., il già citato Ellul rileva un’ulteriore prova dell’opposizione tra Dio e i regni terreni contenuta nell’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse.

I due mostri dell’Apocalisse, la Bestia e il Drago, rappresentano rispettivamente il potere politico e la propaganda. La prima Bestia – diciamo pure il Leviatano – viene dal mare e tutti gli uomini la adorano, ovvero le prestano obbedienza assoluta. Tradizionalmente viene identificata con Roma, ma secondo Ellul il suo significato va esteso a ciò che Roma rappresenta storicamente: autorità e potere militare.

Nell’antichità, l’impero romano raggiunse uno sviluppo e un’espansione senza precedenti, tanto che tutto il mondo (noto) fu costretto in qualche modo a piegarsi e a riconoscerne la supremazia.

Questa Bestia è stata creata dal Drago, il diavolo, il mostro che sale dalla Terra e sembra quasi coprirla con la sua ombra: per Ellul si tratta della propaganda politica.

Il secondo mostro «anima la figura della prima Bestia e parla in nome suo»60P. 123., procurandosi che essa venga sempre più riverita, esaltata, adorata, fino addirittura a prendere il posto di Dio. «Uno dei principali mezzi della propaganda romana era infatti la creazione di un culto di Roma e dell’imperatore, con l’edificazione di templi, altari e monumenti». La fama dell’imperatore, la sua (supposta) magnanimità e (supposta) magnificenza, doveva raggiungere anche il più remoto angolo dell’impero: le monete con la sua effigie circolavano dappertutto, e in suo onore venivano erette persino delle statue (d’altra parte, l’imperatore era considerato sacer e sanctus, “sacro” e “santo”).

Non è un caso che la Roma “idolatra” nei confronti dell’imperatore si sia distinta nella persecuzione contro i cristiani: l’azione era orchestrata dal diavolo, che esigeva adorazione per la sua “creatura” e quindi per sé, a sfregio dell’unico Dio a cui solo sono dovuti e appartengono lode, gloria, onore, potenza e forza «nei secoli dei secoli»61Cfr. Ap 7,12..

Una sezione particolarmente interessante del libro è quella in cui viene ripercorsa la storia delle prime comunità politiche e viene fatto notare che tutti gli Stati, senza alcuna eccezione, «sono nati dall’aggressione e dal soggiogamento di una popolazione su un’altra». In Genealogia della morale, Nietzsche denuncia la stessa cosa:

Una razza di conquistatori e di padroni, che con tutta la sua organizzazione militare e tutto il suo potere di coercizione piomba con terribili artigli su una popolazione con ogni probabilità superiore di numero, ma ancora informe […] tale è l’origine dello Stato.

Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, Mondadori, 1979 (1887), p. 69

Sembra quasi che in nome dello Stato si sia abilitati a compiere i peggiori delitti. In effetti, l’attività criminosa dello Stato viene sempre mascherata con un’“altisonante retorica”62Citiamo Rothbard., per cui gli omicidi di massa (plurimi, se non “genocidi”) diventano “guerra”, la rapina a mano armata diventa “tassazione” e così via.

Non solo: gli omicidi di massa chiamati “guerra” prevedono la riduzione in schiavitù di innumerevoli persone chiamate a immolarsi in nome dell’“amor patrio”, un (cosiddetto) ideale basato su qualcosa che non esiste. O meglio: i confini nazionali esistono solo nei sogni di gloria del tiranno di turno.

Sempre Nietzsche definiva lo Stato “il più freddo di tutti i mostri”. In effetti, i crimini più orrendi vengono commessi dallo Stato con una freddezza e una lucidità senza pari. Si tratta di crimini ben pianificati, organizzati, che seguono una loro (folle) logica: sono crimini commessi con l’aggravante della premeditazione (altrimenti detta “strategia militare”).

I libertari notano che da un certo punto della storia in poi si è semplicemente smesso di applicare la legge morale agli uomini in divisa e a chi compiva crimini su larga scala in maniera organizzata (premeditata).

Smascherate queste dinamiche, lo Stato si rivela finalmente per quello che è: una vasta organizzazione criminale composta da uomini e donne come tutti gli altri che esercitano indisturbati il monopolio legale della violenza e dell’estorsione dei fondi63Cfr. p. 127..

Società senza Stato: solo un’utopia?

Il monopolio è un altro dei problemi fondamentali dello Stato: un’ingiustizia bella e buona, se si considera che questa organizzazione mafiosa sfugge completamente alle regole del libero mercato e della concorrenza. Ma è davvero possibile che la produzione della sicurezza (ad esempio) passi completamente nelle mani dei privati cittadini? È davvero possibile estendere la concorrenza di mercato a quegli ambiti finora considerati di competenza esclusiva dello Stato? Insomma: il liberalismo è o non è solo un’utopia?

Per quanto riguarda gli aspetti più concreti della questione, preferiamo riservarci l’approfondimento per un articolo successivo. Per il momento, ci limitiamo a presentare un quadro generale, o meglio, un “principio generale” da tenere sempre bene a mente. Citiamo ancora una volta il dott. Masciullo, il quale specifica che «il punto focale dell’anarco-capitalismo è che non propone una società ideale (ricadrebbe altrimenti nell’utopismo socialista), ma mette in guardia dal farlo».

In risposta alle obiezioni

Tentiamo ora di rispondere ad alcune obiezioni che potrebbero essere sorte arrivati a questo punto della lettura. Ad esempio: vi sono alcuni passi del Nuovo Testamento che potrebbero far pensare quasi a un “condono” dell’istituzione della schiavitù da parte di san Paolo e di san Pietro, che nelle loro lettere esortano alla sottomissione ai propri padroni, a cui sarebbero dovuti “rispetto”64Cfr. 1Pt 2,18. e “fedeltà assoluta”65Cfr. Tt 2,10..

Intendiamo la schiavitù come qualsiasi privazione della libertà di cui lo Stato si rende sempre più o meno responsabile: alla luce di quanto si trova scritto nel NT, questo (come qualunque altro padrone) meriterebbe non solo il nostro rispetto, ma addirittura la nostra “devozione”!

In realtà, la questione si risolve piuttosto facilmente. L’esortazione condivisa dei santi Pietro e Paolo non è affatto un «imperativo morale categorico», bensì un semplice «consiglio pragmatico sulla migliore gestione di una situazione cattiva e ingiusta»66P. 53.. Lo dimostra il fatto che san Pietro paragona la schiavitù alla condizione di Cristo, il quale «svuotò se stesso / assumendo una condizione di servo»67Cfr. Fil 2,7.:

Questa è grazia: subire afflizioni, soffrendo ingiustamente a causa della conoscenza di Dio; che gloria sarebbe, infatti, sopportare di essere percossi quando si è colpevoli? Ma se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme…

1Pt 2,19-21

San Pietro parla esplicitamente dell’obbedienza dovuta ai governanti in un altro passaggio della stessa lettera, poco più sopra:

Vivete sottomessi ad ogni umana autorità per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come inviati da lui per punire i malfattori e premiare quelli che fanno il bene. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti…

1Pt 2,13-15

Sulla stessa linea il monito di san Paolo:

Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio.

Rm 13,1

Omnis potestas a Deo, “ogni potere viene da Dio” è diventato in seguito il leitmotiv della cooperazione tra Stato e Chiesa. Ma fino a che punto questa cooperazione è sensata (se non “lecita”)?

Anzitutto, è vero che “ogni potere viene da Dio”, com’è vero che “ogni cosa” viene da Dio; il bene, sotto forma di atto della volontà “positiva”; e il male, sotto forma di atto della volontà “permissiva”.

Disse bene Gesù a questo riguardo, in risposta a Pilato che ostentava un potere non suo:

Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto.

Gv 19,11

Un’espressione che somiglia molto a quella usata qualche capitolo prima a proposito del diavolo, rivestito anche lui di un’autorità; e non di una qualsiasi, ma di una “suprema” (“principe del mondo”):

Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo; egli non ha nessun potere su di me…

Gv 14,30

Evidentemente, sia a Pilato che al diavolo l’autorità è stata accordata per divina permissione, non perché Dio la volesse “positivamente” (anche questa dinamica è espressione del fatto che Dio lascia libere le sue creature, intervenendo pochissimo nelle vicende umane e angeliche). Secondo la nostra tesi, dunque, non esiste continuità tra il potere divino e i poteri terrestri se non in questo senso (o meglio: esiste ma è accidentale).

Un male necessario?

A suo tempo, l’antropologo René Girard (1923-2015) chiarì che gli Stati hanno certamente un’origine satanica, tuttavia Dio tollera la loro esistenza così come tollera ordinariamente tutta l’azione del diavolo nel mondo.

Tornando a commentare le esortazioni di san Paolo, potremmo dire che l’apostolo scelse di adottare un atteggiamento estremamente disilluso e realista:

Le Potestà non sono mai estranee a Satana, questo è vero, e tuttavia non si può condannarle a occhi chiusi, giacché in un mondo che è estraneo al Regno di Dio esse sono indispensabili per mantenere l’ordine. Questo spiega l’atteggiamento della Chiesa al loro riguardo. Se le Potestà esistono, dice San Paolo, è perché hanno una funzione e sono autorizzate da Dio. L’apostolo è troppo realista per dichiarare guerra alle Potestà, e raccomanda ai cristiani di rispettarle e addirittura di onorarle, finché non pretendono nulla di contrario alla vera fede.

René Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, p. 137

La domanda, a questo punto, sorge spontanea: è una prospettiva realistica, quella che prevede l’eliminazione dell’autorità statale? È possibile che dopo il peccato i governi si siano resi necessari (o, peggio, “indispensabili”) per il mantenimento dell’ordine? Insomma: se secondo Girard Dio “tollera” gli Stati, non dovremmo fare lo stesso anche noi?

Abbiamo presentato queste obiezioni al dott. Masciullo; riportiamo di seguito le sue risposte.

«Bisogna considerare che c’è stato un ampio periodo della storia in cui la società umana non è stata di tipo statalista. Nel Medioevo, ad esempio, l’Europa occidentale cristiana non conosceva l’esperienza dello Stato, che invece ha caratterizzato sia l’età imperiale romana che quella moderna. Per quanto riguarda la seconda domanda, la risposta è no, perché è il diritto a concorrere al mantenimento dell’ordine, e il diritto può essere anche slegato dallo Stato.

La risposta è negativa anche alla terza domanda: Dio tollera tutti i mali, ma questo non ci giustifica a volerli o ad attuarli».

L’ulteriore dubbio è: come si potrebbe concretamente instaurare questo nuovo/vecchio modello di società? Dal nostro confronto con l’amico Gaetano è emerso che sarebbe meglio dedicare un saggio a parte a questo specifico sotto-tema, adottando magari come fonte il testo di un altro esponente autorevole dell’anarco-capitalismo cristiano, don Beniamino Di Martino.

Il testo in questione è Per un Libertarismo vincente. Strategie politiche e culturali, in cui si riflette sulle varie modalità che renderebbero possibile il ritorno a una società pienamente “libera”. Il dott. Masciullo ne cita una in particolare, il fusionismo, ma di questo parleremo approfonditamente in un prossimo articolo.

Imbracciare (abbracciare) la Croce per sconfiggere il Mostro

Resta di fatto che la nostra società attuale sembra proprio non poter fare a meno dello Stato. Sappiamo che il peccato ha sconvolto tutti gli equilibri del cosmo, inclusi evidentemente i rapporti tra gli uomini, che potrebbero essere descritti in una catena alimentare basata su questo principio (anch’esso hobbesiano, come abbiamo visto all’inizio): homo homini lupus.

Nel fare nostra questa espressione, però, non dobbiamo trascurare un dettaglio fondamentale: il lupo, così come l’uomo, caccia sempre in branco. La minaccia non sta tanto nel lupo solitario – nel singolo homo –, quanto piuttosto nel lupo sostenuto dalle leggi del branco, un gruppo di individui che si riuniscono spontaneamente e operano in modo omogeneo. Non è raro che all’interno del gruppo vigano delle vere e proprie gerarchie sociali; inoltre, a un “branco”, ossia a un gruppo di individui dai comportamenti conformisti aggressivi, viene sempre contrapposto un “gregge”, ossia un gruppo di individui dai comportamenti conformisti passivi.

Nel nostro caso, i lupi aggressivi rappresentano i funzionari statali, mentre il gregge passivo rappresenta il popolo assoggettato, “accerchiato” senza via di scampo dal branco. L’epilogo è facile da immaginare, ma a questo punto conviene cedere il passo a un’altra metafora ancora più esplicativa.

La metafora in questione trae anch’essa fondamento da una legge di natura (più propriamente, della natura decaduta): pesce grande mangia pesce piccolo. Abbiamo più volte paragonato lo Stato a un grande pesce – il Leviatano, per l’appunto –, perciò questo accostamento ci sembra più che calzante.

Specularmente, i cittadini sono simili a tanti piccoli pesci che lo Stato-Leviatano inghiottisce senza troppa fatica, limitandosi a spalancare la bocca e lasciando entrare una grande quantità d’acqua, oltre alle prede effettive. In questo modo, i pesciolini non si rendono conto nemmeno del pericolo, fino a quando il grande Leviatano non chiude la bocca precludendo ai piccoli ogni via di scampo.

Ancora, osservando quanto avviene in natura, ricaviamo che i grandi pesci e in particolare i cetacei si nutrono prevalentemente di plancton, ossia di organismi acquatici che per definizione non sono in grado di dirigere attivamente il loro movimento (si lasciano trasportare dalla corrente e dal vento). In fin dei conti, questi organismi invertebrati somigliano molto agli uomini che nel parlare comune definiremmo “privi di spina dorsale”!

Al di là della retorica e dei giochi di parole, però, l’autorità dello Stato poggia proprio sulla rinunzia dei cittadini a esercitare la loro autorità (libertà) individuale, attuata apparentemente “per vivere in pace”. Come abbiamo detto e ripetuto più volte, però, la libertà collettiva (contrapposta a quella “individuale”) semplicemente non esiste, così come non esiste la possibilità di “vivere in pace” laddove la propria individualità (e quindi sensibilità) viene calpestata. O almeno, esiste ma è apparente; può esistere una calma apparente, un ordine apparente a livello collettivo, ma non a livello individuale. Insomma, rinunciando ai propri diritti e alla propria libertà, l’individuo potrà apparire in “pace” con gli altri, ma non sarà certamente in pace con se stesso.

Sappiamo dal Vangelo che il rispetto e il sano amore per se stessi sono premesse fondamentali per poter amare veramente gli altri. Dunque, come possiamo pretendere di amare e rispettare il nostro prossimo, se non sappiamo nemmeno amare e rispettare noi stessi?

Chiuso questo inciso, vogliamo far notare che siamo tutti in qualche modo “dentro” al Leviatano, siamo tutti quei pesciolini inghiottiti, assimilati, inglobati nel grande corpo di questo serpente tortuoso (si veda l’illustrazione di Abraham Bosse riportata più sopra, dove i cittadini-sudditi equivalgono alle tessere di un mosaico usate per comporre e animare le membra del mostro).

Dopo questa amara presa di coscienza, possiamo e dobbiamo farci una domanda: c’è un modo per venirne fuori? C’è un modo per venire fuori dal ventre del “grosso pesce” che ci ha inghiottiti senza (o quasi) che ce ne rendessimo conto? O meglio – ricordiamolo –, ci ha inghiottiti perché ci siamo fatti inghiottire, per la nostra incapacità a tenere la “schiena dritta” e la nostra inerzia, ovvero la nostra disposizione a lasciarci trasportare dalla corrente… In fondo, vivere nella pancia del Leviatano non ha solo lati negativi: è vero, si vive al buio (rinuncia alla ragione individuale) senza poter mai uscire (rinuncia alla libertà), ma ci sarà sempre qualche pesce più piccolo di noi che il Leviatano inghiottirà e che noi potremmo fagocitare a nostra volta, evitando la fatica di procacciarci il cibo da soli (si pensi alle politiche assistenzialiste e alla “deresponsabilizzazione” provocata dallo Stato di cui abbiamo già parlato in precedenza).

Prima di rispondere alla domanda, precisiamo che si può benissimo sopravvivere nel ventre di un grosso pesce. È possibile almeno per tre giorni e per tre notti, prima che Dio intervenga come fece a suo tempo con Giona.

Affresco Giona
Raffigurazione di Giona inghiottito dal grosso pesce visibile nel katholicon del monastero di Meteora (Grecia). L’affresco è stato realizzato nel 1527 per mano del noto scrittore di icone Teofane di Creta.

Chi conosce il racconto biblico ricorderà che Giona si ritrovò a dover far fronte a questa sciagura dopo la sua disobbedienza, non avendo dato ascolto alla voce di Dio che lo esortava a partire per Ninive. Anche gli israeliti non diedero ascolto a Dio quando Questi li mise in guardia dall’eleggere un re, un uomo come loro che avrebbe finito per spadroneggiare su di loro, dannando non soltanto gli altri, ma in primis se stesso. Piombini sottolinea opportunamente che Saul, il primo re, diventò pazzo e fu infine sconfitto in guerra dai Filistei. Lo stesso Davide, da umile pastore che era, fu traviato dal potere e arrivò a commettere una serie di nefandezze traendo forza e giustificazione proprio dal suo essere re (si pensi all’omicidio di Uria l’Ittita commissionato per “capriccio” [un “capriccio” gravemente peccaminoso, onde evitare fraintendimenti!]). Dopo di lui, Salomone iniziò bene il suo regno, ma poi il potere lo stordì come gli altri («impose tasse gravose, innalzò roccaforti e palazzi dispendiosi, prese 700 mogli e 300 concubine, cominciò ad adorare altri dei e morì nell’odio generale»68P. 108.).

In definitiva, il Leviatano è la nostra Croce, la punizione a sconto di una disobbedienza con cui dobbiamo fare i conti per non aver voluto dare ascolto al comando di Dio. «Chi s’inginocchia davanti a Dio non dovrà farlo davanti agli uomini», diceva qualcuno. Al contrario, chi rifiuta di inginocchiarsi davanti a Dio lo farà molto probabilmente davanti a un idolo, un surrogato di Dio, un (falso) potente che non avrebbe nessun potere, se questo non gli fosse stato accordato (permesso) dall’alto69Cfr. Gv 19,11..

Dire che il Leviatano è la nostra Croce non vuol dire assumere un atteggiamento arrendevole, passivo, nei confronti del nostro oppressore. O meglio: apparentemente sì, vuol dire questo, da un punto di vista umano, e l’esperienza di Gesù ce lo insegna, ma dal punto di vista divino (l’unico degno di nota) vuol dire vincere il mostro in maniera estremamente astuta, provocando indirettamente la sua (auto)distruzione.

Pensiamo alla Croce come a un boomerang: ogni volta che il nostro nemico, lo Stato, ci opprime o pone in essere qualche ingiustizia, possiamo – nei limiti del lecito e senza mai agire contro coscienza – accettare di subire quell’ingiustizia e viverla con un certo spirito, non uno spirito di ribellione, ma uno spirito di mortificazione. In questo modo, sconfiggeremo il mostro con la potenza dell’espiazione, servendoci della sofferenza che lui stesso ci ha dato occasione di sperimentare.

Precisiamo subito che vi sono leggi e comandi dinanzi ai quali ribellarsi non soltanto è lecito, ma è anche doveroso. Altri, invece, si possono tollerare piuttosto facilmente, anzi per noi rappresentano occasioni di esercizio delle virtù (prima fra tutte: l’obbedienza).

Bartolomé Esteban Murillo, “La fuga in Egitto”, olio su tela, 209,6×166,4 cm, 1650. Detroit (Michigan), Detroit Institute of Arts
Bartolomé Esteban Murillo, La fuga in Egitto, olio su tela, 209,6×166,4 cm, 1650. Detroit (Michigan), Detroit Institute of Arts

Si pensi per esempio al comando “scomodo” (non “sbagliato”!) a cui la stessa famiglia di Nazaret si sottomise in prossimità della nascita di Gesù: tutti gli abitanti di Israele avrebbero dovuto recarsi nella propria città di origine per farsi censire. Ebbene, in quell’occasione, Dio si servì dell’osservanza puntuale di una legge – l’editto di Cesare Augusto – per dare compimento alla sua profezia70San Josemaría Escrivá osservava qualcosa di simile in uno dei suoi scritti.! E non una profezia qualunque, ma la profezia riguardante il luogo di provenienza del Messia (Betlemme e non Nazaret, dove pure Maria e Giuseppe vivevano)71Cfr. Mi 5,1..

A riprova di quanto dicevamo sopra riguardo alla necessità di distinguere tra comandi “scomodi” (a volte leciti o meglio “indifferenti” sul piano morale) e “sbagliati” (sempre moralmente illeciti), presentiamo un altro episodio che vede protagonista la Sacra Famiglia: l’episodio in questione è quello ben noto della fuga in Egitto, fuga messa in atto per scampare alla minaccia omicida di re Erode il Grande.

In questo caso, Giuseppe e Maria disobbedirono intenzionalmente con il placet e la benedizione da parte di Dio, che per mezzo dell’angelo avvertì Giuseppe del pericolo a cui andavano incontro e lo esortò a prendere con sé il Bambino e Sua Madre e a partire per l’Egitto.

In altre situazioni, è possibile (“tollerabile”) comportarsi diversamente, subire un’ingiustizia e subirla in silenzio, consapevoli che la Giustizia a cui aneliamo è soltanto rimandata (sarà fatta dinanzi al Giudice supremo alla fine dei tempi). Per di più, in certi casi è proprio impossibile chiedere e ottenere giustizia dai tribunali “pagani”, tribunali alleati con il potere statale, tribunali di ingiustizia – in definitiva –, che si occupano dell’applicazione di leggi inique (basti pensare alla legge sul divorzio):

Quando uno di voi è in lite con un altro, osa forse appellarsi al giudizio degli ingiusti anziché dei santi? Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se siete voi a giudicare il mondo, siete forse indegni di giudizi di minore importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più le cose di questa vita!

Se dunque siete in lite per cose di questo mondo, voi prendete a giudici gente che non ha autorità nella Chiesa? Lo dico per vostra vergogna! Sicché non vi sarebbe nessuna persona saggia tra voi, che possa fare da arbitro tra fratello e fratello? Anzi, un fratello viene chiamato in giudizio dal fratello, e per di più davanti a non credenti! È già per voi una sconfitta avere liti tra voi! Perché non subire piuttosto ingiustizie? Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che vi appartiene?

1Cor 6,1-7

Tra le altre cose, questo è uno dei passaggi in cui san Paolo suona più anarco-capitalista che mai (parla esplicitamente di privatizzazione della giustizia!).

Sottolineiamo ancora una volta che soffrire a causa di ingiustizie e iniquità è un modo per dare la propria vita. Gesù stesso incassò una sentenza di morte da parte delle autorità del tempo, sentenza “funzionale” al compimento della sua opera di redenzione e permessa da Dio in vista di un bene maggiore.

Dio, insomma, sa trarre qualcosa di buono anche dal male, «scrive ritto sulle righe storte». Le iniquità, le disuguaglianze, le ingiustizie, sono sempre da evitare e siamo gravemente tenuti a evitarle (laddove possibile), ma lo Stato è quasi “conveniente” per noi cristiani, viste tutte le occasioni di esercizio delle virtù che ci offre suo malgrado. L’augurio finale è, dunque: sappiamole sfruttare.

Ringraziamenti

Si ringrazia per la collaborazione e il fondamentale contributo alla stesura di questo articolo l’amico dott. Gaetano Masciullo, oltre all’autore de La Croce contro il Leviatano dott. Guglielmo Piombini. Per ulteriori approfondimenti sul tema anarco-capitalismo/filosofia libertaria, consigliamo anzitutto la lettura del libro del dott. Piombini (disponibile per l’acquisto sul sito ufficiale della Libreria del Ponte, su Amazon e nelle principali librerie online/offline) e consigliamo inoltre di seguire l’attività di divulgazione del dott. Masciullo sul suo blog, su YouTube e sui vari social network (Facebook, Instagram e Twitter).

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